Immigrazione e reati culturalmente orientati

Come rispondere alle lacune normative del sistema penal-giudiziario italiano
La grande sfida che l’immigrazione sta lanciando al nostro Sistema Paese è il rilievo che la diversità culturale può determinare in sede penale. La diversità culturale di tipo etnico, infatti, ha dei riflessi significativi nel nostro ordinamento penale e, in ragione di ciò, il diritto penale, può, in taluni casi, divenire strumento di controllo dei flussi migratori e di soluzione dei conseguenti problemi di sicurezza. Per questa ragione, se tale consapevolezza matura anche nei nostri politici si riescono ad affrontare e risolvere problematiche che sempre più spesso dobbiamo affrontare in via emergenziale e con strumenti non sempre idonei nei nostri Tribunali.
Sempre più spesso vengono poste all’attenzione del giudicante condotte criminalizzate dal nostro sistema penale ma non costituenti reati nella cultura diversa dalla nostra, per questo non possiamo esimerci dal riflettere sull’impatto che ha nel nostro ordinamento la diversità culturale e l’immigrazione.
Il problema presenta una drammatica attualità per l’Unione Europea e, soprattutto, per l’Italia, che negli ultimi tempi ha subito una massiccia crescita di flussi migratori implicanti ingresso all’interno dei confini europei e italiani, di soggetti appartenenti ad universi culturali spesso radicalmente differenti dai nostri. La questione, che qui, viene affrontata ci porta a discutere dei c.d reati culturali (o culturalmente orientati, o culturalmente motivati) e della cultural defence cioè sul rilievo che hanno nel nostro Paese quelle condotte che se commesse nel Paese d’origine non costituirebbero reato ma che da noi vengono criminalizzate.
Comportamenti tenuti in contesti culturali, nei quali è ancora imperante una concezione dello ius corrigendi o dell’autorità maritale o della potestà genitoriale, dove ancora esiste la finalità di vendetta dell’onore maschile o famigliare ( maltrattamenti in famiglia o matrimoni incestuosi, poligamici o combinati ed imposti), comportamenti ispirati a tradizioni ataviche, molto diffuse tra gli appartenenti a certe etnie, condotte poste in essere contro la persona commesse effettuando mutilazioni o deformazioni “rituali” di vario tipo, ammesse da talune tradizioni culturali differenti da quella europea che non assumono rilievo alcuno nel Paese d’origine ma che se vengono commessi nel nostro Paese costituiscono reato.
Questa è la sfida che i flussi migratori e, soprattutto la natura pluricolturale e multietnica delle nostre società’ occidentali sta ponendo al nostro diritto penale.
Si ricorda come questo problema è già stato affrontato da altri Paesi che, negli anni ’30 del secolo scorso, erano recettori di massicci flussi migratori, primo tra tutti, Stati Uniti, Canada e Australi, paesi nei quali, il problema è stato di volta in volta affrontato proprio nelle concrete applicazioni giudiziarie, anche con riguardo a fattispecie di reato poste in essere da immigrati italiani.
Tra i casi giurisprudenziali che, più di altri, hanno stimolato, negli Stati Uniti, il dibattito sulle cultural defence, si è soliti ricordare, infatti, il caso GIUSEPPE, un immigrato italiano, il quale, in adesione ad una concezione mediterranea dei rapporti intra famigliari, si comportava in modo violento ed aggressivo nei confronti dei due figli ( di dieci e dodici anni) e della moglie ( anch’essa italiana), essendo conseguentemente sottoposto a a processo penale per maltrattamenti ed abusi sessuali.
Cosa accade da noi. In Italia manca una norma generale che affronti il tema è che quindi riconosca in termini generali che la diversità culturale ha un rilievo penale, per questo, il tema è affrontato dai Tribunali, chiamati, come noto, ad intervenire anche a fronte di lacune ordinamentali.
Negli anni 90 la giurisprudenza si è a lungo occupata del tema con riferimento a condotte di mutilazione genitale, riconoscendo talvolta rilievo alla diversità culturale ( nel lontano 1997 il Tribunale di Torino ha disposto l’ archiviazione in un procedimento nel quale i genitori nigeriani di una bambina, da loro sottoposta ad un intervento di asportazione parziale delle piccole labbra e del clitoride nel Paese d’origine, rispondevano di lesioni personali gravissime, perché è stata valorizzata la circostanza che i medesimi ” avrebbero inteso sottoporre la figlia a pratiche di mutilazione genitale, pienamente accettate dalle tradizioni locali del loro Paese”).
Fortunatamente vi è stato un intervento legislativo successivo legge 9 gennaio 2006 n. 7 che introducendo l’ art. 583 bis c.p. Ha incriminato le mutilazioni e le lesioni genitali, condotte, come tristemente noto, ma approvate da talune culture diverse dalla nostra.
Tuttavia poiché il legislatore, come nel sopra citato caso, non sempre è in grado di affrontare con speditezza e celerità questioni come queste, i giudici italiani, sono in prima linea quando si tratta di affrontare tale problema per ovvie ragioni. Fortunatamente i Tribunali tendono ad escludere che, il riconoscimento di un rilievo penale alla diversità culturale, possa spingersi fino ad ammanetterei una sorta di esimente o scusante in presenza di condotte che, per quanto approvate dalla cultura di provenienza, sono lesive di beni fondamentali presidiati sul piano costituzionale dal nostro ordinamento ma L’approccio al problema, però, non è corretto e la politica, in un sistema come il nostro, non può delegare alla Magistratura il compito di sopperire alla mancanza di norme che affrontino il tema generale della diversità culturale e le sue ricadute nel nostro sistema penale.
Il ruolo di mediatore culturale che talvolta vien riconosciuto al giudice penale non può essere la scappatoia all’impegno di affrontare in modo serio il problema anche perché il compito naturale del giudice è un altro, quello di rendere imparziale la giustizia con le norma positive vigenti non certo “caso per caso” e “situazione per situazione”.

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